Salvare il deserto Per il maratoneta che si accinge a disputare per la prima volta la Marathon des Sables, desertto e corsa appaiono come termini distinti, al massimo complementari. A corsa fatta, ci si accorge che il dualismo non sussiste e che il deserto è la metafora della corsa.
Ci sono voluti sei giorni di corsa e cinque notti di bivacco sulla sabbia per toccare con mano quanto nulla di più errato vi fosse in tale supposizione. Bastano le prime tre ore di viaggio in camion da Tazzarine a Tharbalt, per comprendere come l’idea di spazio nel deserto si traduca in qualcosa di difficile. Chilometri di nulla, un oceano giallo-ocra dove lo spazio, dalla sua presuposizione rettilinea, si fa circolare. Si intuisce che le tappe, le oasi, non sono luoghi di confine, delimitanti il perimetro di gara, ma incerti rifugi di un mare inarrivabile.
L’orizzonte del deserto oltre che circolare è instabile e mutabile. L’orizzonte interiore del maratoneta che attraversa il deserto è lo specchio dei propri dubbi e delle proprie incertezze. Nessun essere vivente nel deserto ha la certezza del proprio futuro, il maratoneta, nel deserto, percepisce, ha esperienza della problematicità del proprio avvenire.
Una maratona nel deserto, rimanendo nell’ambito puramente sportivo, rappresenta un modo più unico che raro di vivere un’esperienza diretta, in grado di raccogliere sensazioni ed emozioni affascinanti, curiosità ed incertezze in cui, forse, solo l’amore per l’avventura, l’ignoto e la sorpresa sembrano appagare. Certo con nessuna presunzione di far cambiare il modo di vita, ma per chi, come noi maratoneti ed ultramaratoneti, la corsa è anche uno stile di vita, raccogliere nuove esperienze è un modo di rafforzare proprie convinzioni e certezze.
La Marathon des Sables è una corsa a piedi, a tappe, in autosufficienza alimentare su una distanza di 200 km, con l’obbligo per ciascun concorrente di portare il proprio equipaggiamento necessario per il bivacco, il cibo e materiale obbligatorio. L’edizione di quest’anno (1993), l’ottava, si è svolta nel sud del Marocco, nella regione di Tarhbalt, a sud delle città di Ouaezazate-Agdez-Tazzarine.
Con il passare degli anni questa manifestazione è stata sempre più perfezionata; ciò è stato desunto da notizie avute da atleti che hanno partecipato a tutte le edizioni, fino a diventare un vero e proprio esame limite delle proprie possibilità, dove atleti di vario strato sociale e culturale, di diversa nazionalità, si misurano, si temprano, si confrontano in una gara che alcune volte raggiunge i momenti di sublime esaltazione (per paradosso) proprio quando si sente che il proprio corpo, la propria mente, il proprio equilibrio comincia a vacillare (compiacersi della autodistruzione fisica e psicologica. Ai medici e allo psicologo la chiave di volta.
Nella Legione Staniera ci si arruolava per sfuggire a gravi reati, ma oggi chi o cosa spinge i Legionari della corsa a caricarsi di uno zaino di 15 kg sulle spalle, sopportare questo fagotto per 200 km nel deserto con sbalzi, salti termici elevati, a soffrire la fame, la fatica e la sete, nessuno saprebbe dirlo con chiarezza. Coraggio e spregiudicatezza non mancano nella nostra dieta di corridori, unite alla passione per la corsa, alla spietata ricerca dell’io o, semplicemente, al grande bisogno di comunicare con sé stessi e con gli altri senza condizionamenti, barriere ideologiche che spesso la vita contemporanea ci obbliga a mantenere.
Nel deserto ecco che valori come solidarietà, comunicabilità e disponibilità tornano prepotentemente ad essere modelli di vita. In questo contesto partecipare alla Marathon des Sables pagando la modica somma di 3.5 milioni di lire può apparire relativo.
Il 27 marzo 1993 incomincia l’avventura: incontro all’aeroporto di Parigi Orly-Sud con gli altri italiani stringendo subito amicizia. Si decolla per il Marocco e si arriva a OUarzazate, poi in bus si prosegue per Agdez e Tazzarine. Di qui trasferimento in camion verso il primo bivacco.
Tharbal, 50 km in 3 ore nel deserto pianeggiante, con polvere e buche, per fare la parte da protagonisti. Ci si guardava dubbiosi e stressati, ma per fortuna, di tanto in tanto, con la mente che vagava nella solitudine e nella demoralizzazione, qualche battuta in toscano dell’amico Piergiorgio Scaramelli ci tirava su il morale.
Arrivati al bivacco ci sentivamo tutti invecchiati di anni, proiettati nel futuro, per quanto eravamo intrisi di polvere. Ma si trattava solo del primo assaggio delle prossime difficoltà. Dopo la ricognizione, tutti noi italiani siamo riusciti a sistemarci in un’unica tenda (senza laterali, per capirci). Sistemati nella tenda inizia l’attività di spionaggio per carpire con ogni mezzo informazioni sul percorso, sulla alimentazione, ecc. Il punto di riferimento su questi temi era Paolo Zubiani che, avendo partecipato a ben sei Marathon des Sables era prodigo di consigli ed onorato di essere considerato il notro mito. Sicuramente il nostro gruppo era particolare ed unico, dove ho avuto modo di assistere a tante situazioni curiose e simpatiche.
Tra gli amici italiani, Roberto Nencioni, dirigente di banca, sponsorizzato dal Comune di Rimini; Aurelio Lazzarini, che aveva preferito la Marathon des Sables alla Parigi-Dakar in moto - gara alla quale aveva partecipato altre volte, in una giungendo 20° - e cerca insistentemente di convincermi a partecipare alla Parigi-Pechino; Luigi Algeri, giunto in Marcco per scaldarsi in vista dell’Iron Man d’Australia; Mario Malerba, atleta fortissimo, un personale di 2.20 nella maratona, che continuamente provava a sedurre un’atleta americana o francese, pur non conoscendo un’acca delle lingue dei suoi oggetti del desiderio; Emilio Previtali, atleta fortissimo nell’apinismo, nella mountain-bike e nelle corse podistiche: trascorreva ogni notte in bianco per mancanza di sacco a pelo idoneo e quindi soffrendo freddo e russamento altrui; Francesco Manfredi, centochilometrista, asciutto, saggio e duro, una guida sorniona e silenziosa per tutti.
Il 28 marzo tutte le procedure vengono passate al severo controllo dei giudici per cui, la sera, si consegnerà tutto il bagaglio non consentito e che verrè restituito all’arrivo. Il problema di scegliere cosa aggiungere o togliere dall’equipaggiamento non è di semplice soluzione.
Alle 8.30 del 29 parte la prima tappa.
Dal road-book si deduce che sarà di 28 km e ci porterà da Ait Ali a Oued Tarbbait, attraversando palmeti, piste sabbiose, il fiume secco Tarhbalt fino al villaggio di Oum el Razlane. Dpo il primo controllo, attraversato il villaggio di Houda, si supera il secondo controllo e si arriva al bivacco a nord del fiume Tarhbait in un piccolo palmeto. In questa prima giornata mi piazzo discretamente in classifica senza particolari problemi se non quelli previsti: temperatuta a 45°. C’è già chi comincia a farsi curare le vesciche.
Dopo una notte abbastanza tranquilla inizia la seconda giornata di gara. È il 30 marzo, tappa di 70 km da Oued Tarhbait a jabel Ras Kemmouna. Non faccio colazione, non riesco a mandar giù i liofilizzati che il buon amico dott. Aureliano Giffi mi ha preparati con tanta cura, passando una nottata insonne per dividere le giuste porzioni. Così parto a stomaco vuoto e dopo la seconda ora di corsa inizia la crisi che mi accompagnerà fino all’arrivo. Durante il tragitto boccheggio, la sete si fa tremenda, intorno a me gli altri concorrenti sono spariti. Mi fermo, consumo una manciata di datteri e noci e mi preparo un tè forte con tanto miele. Dopo un po’ di minuti mi riprendo abbastanza da essere in grado di proseguire e giungere al secondo controllo. Qui la dolce e bella dottoressa italiana Betta è quasi un’apparizione onirica. Betta si accorge subito delle mie condizioni, mentre mi somministra delle vitamine tenta di convincermi a ritirarmi, “Senza viveri non puoi andare avanti” mi sussurra. La sfuggo, riparto e inizio a rincorrere un gruppo di giapponesi. lungo la strada raggiungo William, anche lui in crisi ed insieme procediamo verso il 40° km, poi ancora avanti, a stento e strappi, insieme raggiungiamo, a notte fonda, il 60° km. Con noi c’è anche Luis, un francese di sessantacinque anni con cui abbiamo scambiato parmiggiano con salsiccia francese. All’ultimo controllo troviamo Piergiorgio: ha la febbre altissima. Siamo preoccupati, ma dopo un’iniezione energica si riprende. tentiamo di mangiare qualcosa, ma non c’è nulla che sembri calmare la fame: bisogna resistere e proseguire.
Sotto i crampi della fame fantastico su tutto il cibo che avrei potuto portare con me e che non fo fatto, inseguendo la mia folle filosofia, anche in questi tempi di specializzazione tecnica in tutti i campi, di lasciare una parte al caso, convinto che l’uomo è fatto fondamentalmente di slanci, di precarietà, di avventura, non sempre riducibile all’arida calcolabilità tecnica e scientifica. Sono sempre stato dalla parte dell’ingegno, dell’immaginazione, della responsabilità e aperto all’ignoto, alla sorpresa. Non riesco ad immaginare l’esistenza priva di incertezza e precarietà, fattori che spingono alla ricerca, alla scoperta, al gusto per l’improvvisazione, al misurarsi in condizioni estreme con i soli propri pochi mezzi. È questo il deserto: un elemento che che ci coinvolge completamente e ci costringe a cavar fuori da noi stessi tutto quanto di meglio e di umano c’è in noi.
Dopo altre ore di fatica angosciante, al mattino, finalmente ha termine il supplizio della 70 km. Sogni di gloria e speranze sono spofondati insieme alla mia posizione in classifica generale. Mi ripeto che il solo obiettivo è ora quello di portare a termine la gara. E con quest’intento sono ripartito il giorno dopo, anche grazie ai liofilizzati di William Maffezzoni e agli stuzzichini di Sergio Ortolani. Grande Sergio, la sera la passava a indicare e ad osservare le stelle con il telescopio che il giornalista Roberto Regazzoni custodiva durante itrasferimenti.
Primo aprile: terza tappa, 30 km, da Oued Rehris a Ouzina. Il tragitto prevede una pista sabbiosa, un lago essiccato, montagnole sassose e un piano anch’esso sassoso. Molti concorrenti hanno abbandonato o accumulato ritardi di ore per la durezza del percorso e il mancato recupero dalle prove precedenti.
La mattina successiva è tutta un’effusione di lamenti ed imprecazioni prima della partenza della prossima tappa: 42 km da percorrere quasi interamente sulle dune di Erg Chebbi, l’arrivo sarà al bivacco di Guelb En Nas dopo l’attraversamento dell’altura di Jebel Kfiroun. A questo punto della competizione le posizioni di classifica erano così ben definite che si formavano gruppi spontanei quasi si trattasse di gite; gruppetti composti da quattro a sei persone col solito contorno del giapponese frenetico. Il penultimo giorno la quinta tappa: da Guelb a Maati, 31 km, pista e terreno sabbiosi. La gara è durissima, ma ormai tutti sono con la testa alla fine del martirio: Rissanj. A Rissanj giungiamo il 4 aprile con l’ultimo sforzo di 14 km completamente su pista battuta e l’ultimo tratto addirittura asfaltato.
Sulla piazza del villaggio erano assiepate circa duemila persone contente, esultanti e festeggianti. La piazza era arredata con gusto, dappertutto tende e tappeti intonati ai colori dei palazzi circostanti. A seguire grande doccia rinfrancante, pranzo e, finalmente, dopo 5 ore di pullman attraverso oasi e villaggi suggestivi, rientro a Ouarzazate. A sera gran galà, solite premiazioni, soliti canti si susseguono in modo poco spontaneo. Quello che coglievo nei visi di tutti è che non riuscivano a condividere le fatiche e le sofferenze trascorse in sei giorni e cinque notti. Avremmo dovuto aspettare un’altra Marathon des Sables, magari meno dura?

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